Articolo a cura di:
Annalisa Murolo, Psicologa Psicoterapeuta
Emozioni e Psiche, Centro di Psicoterapia Roma Prati
Quando il successo fa paura
Come superare la Sindrome dell’Impostore abbandonando perfezionismo e autocritica
- Che cos’è la Sindrome dell’Impostore?
- I fattori predisponenti: caratteristiche di personalità e contesto familiare
- Perfezionismo e Sé Ideale
- Perché se il talento c’è il successo non arriva?
- Abbandonare perfezionismo e autocritica: la riscoperta del proprio valore e della propria unicità

“È stata solo fortuna, non meritavo un voto così alto all’interrogazione”.
“Ho superato l’esame con un buon voto, ma era veramente molto facile, chiunque ci sarebbe riuscito”.
“Non meritavo la promozione, ci sono colleghi molto più bravi di me. Credo che il mio capo mi sopravvaluti”.
“Quando il capo si accorgerà della mia incompetenza di certo ne rimarrà deluso e non mi affiderà altri incarichi importanti”.
“È inutile provarci, di certo andrà male e tutti scopriranno chi sono veramente e quanto io sia incapace”.
Quelle sopra riportate sono alcune delle frasi che ci ritroviamo a pronunciare e che esprimono la poca fiducia che abbiamo nelle nostre capacità; ma se a tutti può capitare, di tanto in tanto, di formulare questo genere di pensieri, per alcune persone queste idee sono costanti e ricorrenti e non sono riconducibili ad un isolato momento di insicurezza, ma ad un atteggiamento mentale, perlopiù inconsapevole, che si configura con quella che viene definita sindrome dell’impostore. Tale sindrome, particolarmente comune fra le donne, in particolare fra quelle di talento, è caratterizzata dalla tendenza a ricondurre i propri successi a fattori esterni come il caso, la fortuna, le coincidenze o alla sopravvalutazione degli altri unitamente ad una sensazione di scarso valore, soprattutto in ambito professionale.
Non si tratta solo genericamente di un problema di bassa autostima, ma di un insieme di pensieri svalutanti nei confronti di sè stessi che condizionano pesantemente il comportamento di chi ne soffre sul lavoro, con i colleghi, nelle relazioni interpersonali e più in generale nell’approccio alla vita, con conseguenze sulla propria autostima e che può portare allo sviluppo di ansia e depressione. Uscirne è possibile, ma soltanto attraverso un percorso di presa di consapevolezza alla scoperta del proprio reale valore e della propria autenticità.
1. Che cos’è la Sindrome dell’Impostore?
Individuata per la prima volta nel 1978 dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes per descrivere una condizione psicologica, particolarmente diffusa fra le persone brillanti e con una marcia in più, caratterizzata dall’incapacità di interiorizzare i propri successi e risultati e dal timore di esporsi temendo di essere poco intelligenti e con scarse potenzialità. La persona si percepisce inoltre come un “impostore”, una dolorosa sensazione di non autenticità accompagnata dalla convinzione di ingannare chi esprime stima e apprezzamento nei suoi riguardi. Si tratta di un fenomeno psicologico complesso che causa, in chi ne soffre, vissuti che vanno da un profondo senso di inadeguatezza e vergogna, a veri e propri sentimenti d’inferiorità nei confronti degli altri e che permangono nonostante i successi ottenuti o le conferme ricevute dall’esterno. Questi vissuti contribuiscono al mantenimento della condizione di sofferenza poiché spingono il soggetto alla ricerca di una performance continua sempre più elevata e anche la conquista del risultato o di un successo raggiunto non producono soddisfazione. Le evidenti prove delle proprie capacità, così come i riconoscimenti ricevuti, vengono messi da parte, distorti e negati anziché depositarsi per andare ad alimentare e sostenere la fiducia in sé e nel proprio valore.
Il tema del confronto continuo con gli altri spinge la persona alla ricerca di standard molto elevati; entro certi limiti questa attitudine performante è positiva poiché consente di raggiungere gli obiettivi che ci si pone ma può diventare una gabbia opprimente quando le aspettative vengono tradite. Questo fenomeno si manifesta come una sorta di distorsione cognitiva che investe anche la sfera percettiva provocando in alcuni casi una vera e propria dismorfofobia che si manifesta con la ricerca a tutti i costi di un corpo perfetto e una costante insoddisfazione per la propria immagine corporea.

2. I fattori predisponenti: caratteristiche di personalità e contesto familiare
Come accade per molti altri disturbi è plausibile ipotizzare che specifiche caratteristiche della personalità possano predisporre allo sviluppo della sindrome dell’impostore, ma le ricerche sottolineano che oltre ad una predisposizione del singolo, tale fenomeno emerge sempre all’interno di un determinato contesto relazionale. Questo accade perché le relazioni disfunzionali vissute nell’infanzia hanno favorito l’apprendimento di schemi di pensiero auto-limitanti, basati sulla colpa e sul ricatto affettivo.
Ad esempio, alti livelli di conflittualità in famiglia, un atteggiamento ipercritico da parte dei genitori, la mancanza di empatia da parte del caregiver e un atteggiamento controllante sarebbero fattori caratteristici del contesto familiare considerati dagli psicologi come particolarmente predisponenti. Proprio in quell’ambiente familiare, nel quale nascono e si strutturano ruoli eccessivamente rigidi, possiamo trovare una spiegazione del perché, chi soffre della sindrome dell’impostore, convive con la sensazione di essere poco intelligente e spreca tante energie mentali nel tentativo di essere costantemente performante alla ricerca di una approvazione genitoriale che non è mai arrivata e che non potrà forse arrivare mai. Il motivo è da ricercare dunque nelle complesse dinamiche familiari e ancor più nello specifico nel sottosistema dei fratelli che costituisce il primo laboratorio sociale in cui è possibile cimentarsi in una relazione fra pari. All’interno del contesto familiare due fratelli imparano l’uno dall’altro, capiscono l’importanza della negoziazione, della cooperazione e anche della competizione; ma se uno dei due è considerato “il più intelligente” o “un genio” dai genitori, nulla potrà fare l’altro fratello per arrampicarsi fino in cima a quel muro e sentirsi ugualmente visto e considerato per le sue reali capacità con il rischio di sviluppare una sensazione costante di inferiorità, che si andrà poi a cronicizzare in quel vissuto di scarso valore che ritroviamo sempre nella sindrome dell’impostore. Non è colpa purtroppo di nessuno, i genitori a loro volta sono esseri umani alle prese con un mestiere difficilissimo e sono stati loro stessi vittime di contesti relazioni disfunzionali all’interno delle loro famiglie di origine. I figli di genitori narcisisti diventano a volte essi stessi degli oggetti narcisistici, un prolungamento dei genitori, investiti di responsabilità e fardelli troppo grandi per le loro piccole spalle e che solo un lavoro terapeutico un giorno potrà alleggerire.
Risulta allora fondamentale imparare a dare il giusto riconoscimento a noi stessi, anche se questo è proprio quello che è mancato nell’infanzia, imparando a rispettare la propria unicità e mettendo da parte quell’atteggiamento giudicante che nasce dal continuo ed estenuante confronto con gli altri e da un ideale di perfezione irraggiungibile.
3. Perfezionismo e Sé ideale
Il desiderio di imparare sempre nuove cose e migliorarsi, o di mantenere standard di rendimento elevati, non è necessariamente un sintomo di perfezionismo patologico. L’ impegno e la determinazione nel perseguire certi obiettivi permettono infatti di raggiungere successi nello studio così come nel lavoro in tempi relativamente brevi; non potremmo parlare di autorealizzazione se non avessimo delle aspettative su di noi. Il perfezionismo costituisce un problema quando porta all’infelicità e pregiudica la possibilità di avere una vita soddisfacente. Il perfezionismo patologico è infatti associato spesso ad altri disturbi psicologici, tra cui una estrema irritabilità, depressione, fobia sociale, incapacità di accettare il proprio aspetto fisico, comportamenti ossessivo-compulsivi. Vediamo insieme dove nasce il perfezionismo cronico e cosa succede quando il desiderio di perfezione diventa disfunzionale arrivando a pregiudicare anche le prestazioni.
Ripercorrendo il pensiero di Winnicott, noto pediatra e psicoanalista britannico, anche Kohut con la sua psicologia del Sé sottolinea il bisogno del bambino di essere visto e ammirato dai propri genitori, un bisogno fondamentale per l’espansione e la crescita del proprio Sé. Se questo sguardo di ammirazione, conferma e approvazione da parte dei genitori non arriva, il bambino sarà costretto ad adeguarsi ad una immagine di sé ricalcata sulle aspettative degli altri significativi per lui sviluppando un falso sé perfetto e compiacente (leggi qui il nostro articolo sul falso Sé) e tradendo il proprio Vero Sé pur di sentirsi accettato e di ricevere amore (Garofalo, 2006). Fin da piccoli impariamo quindi, a scuola come a casa, che per ottenere l’approvazione degli altri è necessario soddisfare certi standard di comportamento. Quando le richieste dall’esterno risultano eccessive, cariche di critiche, insieme ad un misconoscimento dei reali bisogni del bambino, ecco che allora può verificarsi questo lento allontanamento dal Vero Sé, pericoloso e confusivo, perché porterà da adulti ad una difficoltà a connettersi con i propri reali bisogni e scopi nella vita e con la propria vera profonda identità. Vivere attraverso una immagine idealizzata di Sé stessi può costituire una difesa e una corazza con la quale presentarsi al mondo, può aiutare a sentirsi più sicuri e a districarsi nel complesso mondo dei rapporti interpersonali, ma contemporaneamente condanna l’individuo ad essere vulnerabile, perché non autenticamente in contatto con sé stesso, e quindi molto dipendente dagli altri (Garofalo, 2006). Vivere dovendo alimentare questa immagine idealizzata di Sé è molto faticoso. Implica un atteggiamento intransigente verso sé stessi che non permette alla persona dèfaillance e che le fa credere che un solo errore corrisponda al totale fallimento.
Per contrastare l’auto svalutazione di sé, infatti, la persona mette in atto strategie come aumentare il carico di lavoro (che può diventare il fulcro della vita) o rimuginare sui propri errori. Strategie queste che si rivelano però inefficaci poiché non riducono l’ansia ma alimentano il circolo vizioso dell’insoddisfazione che si genera dalla distorta e inconsapevole convinzione di non essere mai abbastanza. Quando anche in età adulta, ad esempio sul lavoro, ci viene chiesto continuamente di soddisfare, e a volte di superare, determinate aspettative a risentirne sono poi le passioni e gli interessi personali fondamentali per nutrire una mente attiva, creativa e propositiva anche sul lavoro. Per questo è importante riuscire a smettere di dubitare del proprio valore cercando di diminuire il dialogo interno negativo e valutare il proprio potenziale che si fonda su capacità e parti vere della persona, ma anche sul proprio grado di perfezionismo. Sarà fondamentale allora farsi aiutare da esperti a mettere a punto una strategia di cambiamento che possa modificare vissuti e pensieri perfezionistici, accettando le imperfezioni e imparando ad accogliere e dialogare con la paura del fallimento.
4. Perché se il talento c'è il successo non arriva?
Le persone che soffrono della sindrome dell’impostore non hanno paura solo del fallimento, ma in realtà è proprio il successo che temono. Vediamo perché: si tratta di persone estremamente sensibili ed intelligenti, che analizzano ossessivamente tutte le loro mancanze quasi a ricercare conferme del loro scarso valore. Mettono lo studio o il lavoro sempre al primo posto nella loro scala valoriale evitando il più delle volte distrazioni ed occasioni di socializzazione; in età adulta tendono a sottoporsi a ritmi di lavoro forsennati, sentendosi sempre sotto pressione e rischiando il più delle volte di sfinirsi e sviluppare una vera e propria sindrome da BurnOut (dall’inglese to burn out ovvero “bruciarsi, esaurirsi”). Questo vissuto spinge a ricercare costantemente nuove conferme e sottopone la persona ad un logorante sforzo continuo per ottenere l’eccellenza. Questo atteggiamento nei confronti dell’impegno scolastico e del lavoro può essere legato anche ad un Super-Io rigido ed ipercritico, una sorta di giudice interiore che vigila, derivante dall’interiorizzazione di una immagine genitoriale severa, richiedente in termini di risultati e successi e poco empatica. Le persone che soffrono di questa sindrome, nonostante possano vantare una carriera scolastica invidiabile e collezionino corsi, specializzazioni, master e titoli, svolgono spesso un lavoro non adeguato al loro livello d’istruzione e questo perché tendono a ricercare contesti sociali o lavorativi molto al di sotto delle loro reali potenzialità all’interno dei quali sentirsi più sicuri così da poter controllare l’ansia da prestazione. In altri casi ricoprono un’ottima posizione lavorativa oppure si trovano in un momento di ascesa della loro carriera, ma prevale comunque sempre la sensazione di fallimento ed estraneità. A volte la fuga da situazioni temute, difficoltà a prendere decisioni, il controllo eccessivo e il bisogno di essere sempre rassicurati, costituiscono degli impedimenti nella crescita sul lavoro pregiudicando il raggiungimento di posizioni di potere. L’anticipazione del fallimento in riferimento ad una performance richiesta e la scarsa fiducia nelle proprie capacità, possono dunque condurre a comportamenti di evitamento di contesti di lavoro sfidanti e stimolanti, dove l’individuo potrebbe sentirsi particolarmente esposto, ma all’interno dei quali potrebbe invece essere apprezzato e valorizzato apportando il suo autentico contributo. Queste strategie aiutano a contenere le sensazioni di disagio a breve termine, ma allo stesso tempo contribuiscono a farle persistere sul lungo periodo precludendo così l’espressione del talento ed il raggiungimento del successo.
Un successo che arriva dunque tardi e solo quando si inizia a prendere realmente coscienza dei timori infondati e consapevolezza del proprio reale valore e di quello degli altri.
5. Abbandonare perfezionismo e autocritica: la riscoperta del proprio valore e della propria unicità
Liberarsi dalla sindrome dell’impostore è possibile e come tutte le crisi il percorso per uscirne offre una grande opportunità di crescita alla scoperta della propria autenticità. Riconoscersi in alcuni tratti e tendenze che caratterizzano questa condizione psicologica è sicuramente un primo passo verso l’acquisizione di una consapevolezza che consente, attraverso la sofferenza percepita, di muovere i primi passi verso un cambiamento.
Tenere un piccolo diario dove appuntare successi e obiettivi raggiunti, per poi periodicamente dedicare del tempo a rileggere i complimenti ricevuti, così come concedersi del tempo per sé stessi, per la meditazione, lo yoga e per tutte le attività che consentono di nutrire la propria interiorità, potrebbe essere di aiuto per allenare la memoria e contrastare la voce del nostro sabotatore interno.
Quando la sindrome dell’impostore è accompagnata da disturbi d’ansia, fobia sociale, depressione, o da un importante disagio che compromette significativamente la qualità della vita, è importante rivolgersi ad uno psicoterapeuta esperto che possa accompagnare la persona in un percorso di conoscenza di sé, alla scoperta dei propri meccanismi di funzionamento. Aumentare il livello di consapevolezza sarà utile per non vivere cercando costantemente di difenderci come un soldato perennemente in guerra sprecando energie per controllare un corpo teso perché in allarme.
Il percorso terapeutico consentirà di lavorare su sé stessi per riuscire pian piano a riconoscersi il merito e la responsabilità dei propri successi, ad abbandonare la maschera compiacente e perfezionista, a ridurre la dipendenza dal giudizio altrui e ad interiorizzare una autostima stabile e salda.
Il lavoro terapeutico favorirà, inoltre, la capacità di riconoscere e finalmente mettere in discussione la voce del severo giudice interiore, consentendo di poter gradualmente ridurre i vissuti di inadeguatezza e vergogna, di ristrutturare le credenze e convinzioni negative rispetto a Sé e di riconoscersi il giusto valore, lasciando emergere tutte le risorse e le capacità per lungo tempo sommerse.
Bibliografia
Clance, P. (1985). The Impostor Phenomenon: Overcoming the Fear That Haunts Your Success. Atlanta: Peachtree Publishers.
Garofalo, D. (2006). Riconoscimento e Psicoanalisi. Roma: Borla.
Lumera, D., De Vivo, I. (2021). La lezione della Farfalla. Milano: Mondadori.
Swinson, A. (2018). Nessuno è perfetto, Strategie per superare il perfezionismo. Trento: Edizioni Centro studi Erickson.
Sitografia
Mendetti, S. (2020). Svalutarsi sul lavoro: cos’è la sindrome dell’impostore, come funziona e come si disinnesca. https://www.repubblica.it/moda-e-beauty/2020/07/13/news/svalutarsi_sul_lavoro_cosa_e_la_sindrome_dell_impostore-291295889/